Lo stand di una fiera: metafora di un’azienda che resiste
Metef-Foundeq, la recente fiera biennale dei metalli di Montichiari, è stata anche un’occasione per comprendere punti deboli e punti di forza dell’industria e della nazione italiana: tante considerazioni sparse trovano spesso in un evento, seppur specializzato, una conferma.
La fiera si teneva dal mercoledì al sabato, per includere una giornata del fine settimana: molte fonderie locali che visitano la fiera non vogliono, con ragione, sottrarre alla produzione una giornata di lavoro settimanale. Peccato che il venerdì mattina sia anche la giornata dedicata al mercato agricolo che nessuna istituzione riesce a spostare, nemmeno una volta ogni due anni. Percorrere i pochi chilometri che separano Montichiari dalla città, dal lago di Garda, dall’autostrada, venerdì mattina significava ore di code e di viabilità impazzita attorno al Centro Fiera.
Montichiari non ha veri collegamenti con le città e gli aeroporti vicini. Come direbbero gli americani è “in the middle of nowhere”, nel mezzo di nessun luogo. Oltre ad un paio di taxi che si alternavano nell’orario di apertura, gli unici mezzi di trasporto erano messi a disposizione dagli organizzatori; oppure dai singoli espositori che, come al solito, si preoccupano della logistica dei propri clienti: dall’albergo alla fiera, al ristorante, all’aeroporto, alla stazione ferroviaria. E viceversa. Chi arriva da Strasburgo racconta di aver preso un treno veloce che termina la sua corsa direttamente nell’aeroporto di Francoforte, ma anche chi viene da Stoccarda, Brussels o Londra lo fa puntualmente e comodamente solo fino ai nostri terminali aereoportuali.
Poi è un viaggio ricco di imprevisti, dove si entra in un imbuto di poche strade affollate, si cambiano molti mezzi e si perdono ore inutilmente. L’industria italiana non ha il supporto delle infrastrutture: è il titolo di molti articoli, ma viverlo di persona è difficile. Ricavati in angoli angusti, anche il ristorante, il self service e i bar della fiera di Montichiari non erano all’altezza della fama italiana per la buona cucina.
Due delegati dell’associazione di categoria americana paragonano Metef a Cast Expo, la recente fiera omologa che si è svolta a marzo a Orlando, in Florida. Sono colpiti dalla nostra ospitalità, dall’atmosfera conviviale: negli stand si è accolti da belle ragazze sorridenti, si serve la pizza infornata sul posto, le crespelle calde, il parmigiano e i salami di varie origini geografiche, un caffè ben fatto con i pasticcini freschi. Nell’antica Grecia l’ospite era sacro e benvenuto. A Ulisse che arriva in terre straniere prima si offre un banchetto, poi lo si ascolta. Anche in Italia. A Orlando l’offerta base era costituita da minuscoli stand espositivi chiamati “booth”, letteralmente bancarella, cabina: anonimi loculi separati da tende nere sorrette da tubi modulari, presidiati da anziani che regalano qualche biro, un apri bottiglie o un portachiavi.
A pranzo un classico panino da fast food con le patatine confezionate. Gli spazi dedicati alle fiere in America sono grandi capannoni senza finestre, bui, parzialmente illuminati, e rafforzano anziché contrastare la depressione e il pessimismo generale. “Voi sì che siete capaci di organizzare fiere sexy” dice Leonard Cordaro, il vice chairman dei pressocolatori americani. “Ci fate sentire ospiti graditi, ci offrite la vostra amicizia prima ancora di fare affari insieme”. Gli stand delle fiere italiane sono la metafora delle aziende che rappresentano: uno spazio chiuso che coltiva regole diverse dallo quello più vasto che le circonda, isole felici che contrastano con l’ingegno e la flessibilità le carenze del sistema e del paese che le contiene.