L’eclissi degli Stati Uniti d’America
Spesso abbiamo un’idea distorta degli Stati Uniti, soprattutto se ci fermiamo a New York, Chicago e San Francisco. C’è un’America periferica che soffre, ad esempio negli stati del Sud dove le case di legno fatiscenti, i vestiti logori di chi fa acquisti al Wal-Mart locale, la scarsa qualità delle merci in vendita, dà un’impressione di desolazione compensata solo dalla natura rigogliosa e dagli spazi immensi del paesaggio (l’autunno che cambia il colore delle foglie arriva più tardi in Arkansas e Alabama, ma è uno spettacolo pari a quello del New England, negli stati del nord est).
In America la spesa media per un anno di università è di 8.244 dollari, 8,3% più dello scorso anno. Gli aiuti per gli studenti (crediti d’imposta e deduzioni) sono diminuiti del 23% nell’ultimo decennio: anche qui i bilanci dei singoli stati si chiudono tagliando i fondi ai cittadini. Obama ha promesso un piano che consolidi il debito per pagare l’università e riduca il relativo tasso di interesse: per l’americano medio suona come una buona notizia. Nel paese dove i sogni più straordinari e impossibili possono realizzarsi, si sta forse peggio che in Italia. Il sociologo italiano Giuseppe de Rita titola il suo ultimo libro “L’eclissi della borghesia”, il quotidiano Usa Today titola in prima pagina la stessa cosa: “The fading middle class”. La classe media in America è determinata dai proprietari di case (il 66% della popolazione), e può andare da 20.699 a 99.981 dollari di reddito lordo annuo pro capite: una forbice ampia che in realtà esclude una buona fetta di persone dalla classe media e la include piuttosto tra i cosiddetti “poveri”, quelli che, titola sempre Usa Today, “are barely getting by”, ce la fanno a malapena.
Un americano su sei, ben 46 milioni, è povero, la cifra più alta dal 1959, primo anno di misurazione della povertà da parte del Census Bureau (la “linea di povertà” viene stabilita da un reddito annuo complessivo di 22.314 dollari o meno per un nucleo famigliare di quattro persone). Il consumismo americano che privilegia la convenienza, la sostanza e lo scopo d’uso, ha comunque alimentato un circolo virtuoso anche per gli europei: parte del massivo export cinese negli Stati Uniti è sorretto dalla tecnologia tedesca, e dunque anche dalla subfornitura italiana. Essendo la americana una “motor society”, si rinuncia a tutto ma non all’auto, favorendo l’industria metalmeccanica. Rimane però sempre molto difficile consegnare direttamente alle aziende statunitensi, tranne poche eccezioni, macchinari e prodotti di livello superiore.