Le parole per dirlo di Eugenio Borgna

Eugenio Borgna ha sempre considerato le parole fondamentali nella cura psichiatrica.
Secondo Borgna i nostri pregiudizi, l’atteggiamento interiore verso la sofferenza altrui, contribuiscono ad allungare o diminuire le sofferenze altrui. Ricorda che la schizofrenia peggiorava quando i medici, nei manicomi, la curavano come un tumore, con i farmaci, senza dialogo: avevano paura di questi pazienti e ciò aumentava la violenza degli stessi, provocando le contenzioni, in un circolo vizioso senza fine.
Siamo infatti tutti bisognosi di relazioni: “In der Welt sein” diceva Heiddeger, cioè essere nel mondo, essere gettati nel mondo, con una contiguità che non si può interrompere. La nostra conoscenza è intrecciata con quella degli altri (come diceva Husserl), siamo in un contesto relazionale.
L’esperienza può uccidere la speranza: spesso la tentazione è applicare cure già applicate nel passato, tanto da non cogliere il nuovo e l’originale. Si tende a replicare, a ripetere. In realtà devo essere attento, cogliere cosa cambia, cosa si muove di nuovo nonostante il delirio del paziente che sembra invece ripetersi. Noi tendiamo a rimanere immobili con le nostre idee, mentre le emozioni e le passioni sono più fluide.
La prognosi può dunque farsi una definizione secolarizzata dell’esperienza, una valutazione che fa rinascere esperienze già fatte: in realtà anche la follia cambia, anche noi stessi cambiamo il significato delle nostre parole a seconda degli stati d’animo, e dunque devo sempre cercare di cogliere cosa c’è di nuovo e originale. Perché l’esperienza tende a farci vedere il futuro come ripetizione del passato.
Dovremmo dunque selezionare le parole, usare solo parole leggere e serene, avere coscienza dei problemi. I media si muovono spesso con scarsa delicatezza: quando un giovane si suicida anziché analizzare la personalità di quel singolo si parla della generalità dei giovani. Oppure di fronte ai reati che non hanno nulla a che fare con la depressione, questa diventa invece la causa di tanti suicidi e paradossalmente anche di tanti omicidi…Borgna ricorda che sulle cartelle dell’ospedale di Novara scrivevano: “Depressione atipica” anziché “schizofrenia”, perché nei parenti e nei pazienti la percezione poteva essere distruttiva con la parola “schizofrenia”, e peggiorava la situazione. Maggiore è la simpatia (anche nel senso latino di simul pati, soffrire insieme), verso il paziente e maggiore è la nostra capacità di capirlo. Come pazienti abbiamo infatti parole deboli, fatichiamo a definire cosa proviamo. “Date parole al vostro dolore altrimenti il vostro dolore vi spezzerà” (Macbeth). Seppur a volte in ospedale le metafore delle pazienti erano forti, più forti di quelle dei medici: “…non vedo il futuro…viene sempre il domani, ma per me il domani non c’è, non vedo più i miei bambini diventare grandi. Quando i bambini vengono a casa non so più cosa fare. Non bolle più nemmeno l’acqua.”
E spesso con una depressione grave è inutile parlare: una carezza, una stretta di mano, il corpo come strumento attraverso il quale passa la condivisione, è l’unico mezzo di comunicazione. “Tirati su, fatti coraggio”, sono parole terribili. Una paziente ha detto: “…è come se si dicesse a una persona con le gambe fratturate di mettersi a correre”.
Quando ci ammaliamo nasce un solco. Se nelle sale d’ospedale portiamo la stessa baldanza acritica che abbiamo fuori è dannoso: anche solo chiedere “come stai?” potrebbe essere implicito il timore che qualcosa non funziona.
Pochi però tengono conto di questa psicologia elementare.
Quando si sta male, quando si è depressi, o si ha un’esperienza maniacale, le tre dimensioni del tempo cambiano, e anche il medico deve cambiare: se parla a un paziente che vive solo nel passato, non  può nominare il futuro.
Spesso malinconia e depressione si ritengono intercambiabili: ma la malinconia a volte è un’esperienza depressiva non psicotica, la malinconia fa parte della vita e non è patologica. Solo quando si fa acuta sconfina e diventa depressione.
I depressi malati sono 1 su 100; i malinconici non malati, non psicotici, sono 20 su 100.
Questa distinzione non viene mai fatta. Basta che qualcuno sia sfiorato da giornate oscure, con sintomi simili sia nella malinconia che nella depressione, che avverta una modificazione nella percezione del tempo e si parla di depressione. Ma sono indizi che non bastano per definire qualcuno malato di depressione.
Oggi ci sono solo definizioni univoche, ma non basta essere tristi, dormire male per essere inseriti in questa area dolorosa. Rilke non si sottopose all’analisi per paura di perdere anche “gli angeli” (la prima delle elegie udinesi nomina proprio l’angelo). Ci sono anche crisi trasformatrici, innovative. La tristezza arriva come un ospite straniero, ci libera dalle scorie, dalle consuetudini diceva Rilke. Invece l’introspezione oggi si sta dileguando: il tempo è riempito dalla radio in auto, dai telefonini sempre accesi in attesa di qualcuno che si faccia vivo, come dice Zygmunt Baumann.

22 Aprile 2013


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