La ‘ndrangheta e il giudice meschino: una storia purtroppo italiana
Nonostante il vezzo di aver cambiato nome, da Domenico a Mimmo, Gangemi non è un giovane (ha 60 anni), non è all’esordio (negli ultimi quindici anni ha pubblicato altri libri vincendo numerosi premi letterari), non ha studiato comunicazione (è ingegnere), non racconta di notti pulp e vite eccessive, rave party e abusi etilici. Il suo dunque non è stato un caso editoriale prima ancora di uscire nelle librerie. Ma ha colpito i lettori più esperti, i librai, che lo hanno incluso tra i finalisti del Premio Bancarella, nonché una casa prestigiosa come Einaudi che lo pubblica giustamente tra i Big della collana “Stile libero”. Il suo romanzo merita infatti un’attenzione speciale, per la trama avvincente e non scontata, per lo stile fluido e spesso divertente.
In Calabria, nell’androne del palazzo dove abita, viene ucciso Giorgio Maremmi, un giudice che inconsapevolmente si è spinto in un territorio più vasto di quello della sua giurisdizione, dove la ’ndrangheta fa solo da terminale esecutivo di affari più grandi, internazionali, perché nell’era della globalizzazione anche la criminalità si adegua. L’amico e collega Alberto Lenzi, “inetto consapevole” sveviano e da sempre abile nello schivare i problemi, si ritrova suo malgrado ad indagare su quell’omicidio, eccessivo anche per la stessa ‘ndrangheta che pur viene subito accusata. E’ infatti il capobastone ergastolano Don Mico Rota a cercare una soluzione parallela e alternativa, a orientare le indagini: parla come un oracolo dal carcere, conosce molto e comanda le persone nonostante la reclusione. Cerca di stabilire un rapporto leale con il giudice, seppur si muovano da fronti antitetici, anche perché, ormai vecchio e malato, spera negli arresti domiciliari dove annusare per l’ultima volta il profumo di un albero di limoni. In particolare Don Mico rispetta i tradizionali codici e valori che le famiglie della nuova generazione hanno invece dimenticato. E qui Gangemi si muove sopra un crinale pericoloso, a tratti quasi nobilitando questa organizzazione criminale che è alla fine più efficace della giustizia: quella ufficiale e istituzionale è invischiata nella meschinità dei singoli, del potere politico ed economico, dei tanti interessi o dei pochi singoli deviati. Forse, però, quella di Gangemi è purtroppo una semplice constatazione, una verifica amara ma vera. Nel frattempo, anche grazie alle imbeccate più o meno cifrate del boss Rota, Alberto Lenzi prosegue le indagini: diventa protagonista solo perché non riesce a fare altrimenti, perché le cose gli prendono la mano così come sembra succedere a chi ha ucciso il giudice Maremmi e ora colleziona altri morti, tutti troppo vistosamente marchiati dai simboli della ‘ndrangheta, quasi si volesse indicare la mano che ha eseguito. Il finale è avvincente, l’epilogo è spesso negato e rimandato anche quando sembra di essere sulla pista giusta, e riabiliterà il giudice meschino. Il romanzo di Gangemi ricorda “Gli uomini che non si voltano” di Gaetano Savatteri (Sellerio). Quello di Savatteri era ambientato in un altro contesto, tra la Roma del potere e la Sicilia della mafia, ma l’accostamento rafforza la convinzione che in Italia, qualcunque siano il luogo, la vicenda e i protagonisti, non ci sono mai linee nette a dividere il bene e il male.
Il giudice meschino
Mimmo Gangemi
Einaudi, pagg. 358,
Euro 19,00