Giardini di Robert Pogue Harrison: chi semina vento, raccoglie tempesta
“Giardini”, l’ultimo libro di Robert Pogue Harrison, che dirige il Dipartimento di Italiano e Francese all’Università di Stanford, è talmente ricco di riferimenti, omaggi e citazioni letterarie, filosofiche, storiche che è difficile classificarlo.
Non a caso la parola cultura affonda le sue radici nella terra. Il sottotitolo “Riflessioni sulla condizione umana” chiarisce subito che non si parla di giardini in termini botanici o naturalistici, ma chiamarlo saggio sembra alla fine riduttivo. I giardini sono la metafora ideale per comprendere l’evoluzione dell’uomo fino alla “follia” dell’età contemporanea, come la definirebbero alcuni filosofi italiani che pur partono da altre premesse.
Perché la pace è intesa come preludio di morte, perché all’Eden si preferisce la felix culpa, perché in Occidente bisogna agire, competere, superare, trasformare, produrre; perché oggi il desiderio chiede solo ancora altro desiderio e genera irrequietezza: la vita vuole altra vita, in un’avidità bulimica che oltre ad allontanarci dalla natura tout court, ci allontana dalla natura umana, dalla nostra fisiologia promettendo una immortalità garantita dalla scienza, dalla medicina: dalla tecnica direbbero Umberto Galimberti e Emanuele Serverino.
Dai giardini di Epicuro a quello del Candide di Voltaire, dall’hortus conclusus di Boccaccio ai chiostri monastici, dal giardino “invisibile” agli studenti dell’Università di Stanford a quello filosofico Zen: la lettura è intensa e molto istruttiva, dunque addirittura educativa e formativa per la maggioranza estranea al mondo tridimensionale, a proprio agio davanti alla TV o al computer ma cieca ai fenomeni naturali. Come ha scritto Milan Kundera l’europeo non guarda più il cielo, non sa più la forma della luna quando arriva e quando se ne va.
Sembra che i giardini nascano prima dell’agricoltura, espressione del bisogno tipicamente umano di trasfigurare e abbellire la realtà, sono addirittura terapeutici per i senzatetto che con le loro composizioni improvvisate a cielo aperto rivendicano una creatività, lottano per non perdersi del tutto e fissare il “punto fermo del mondo che ruota”, per dirla con T.S. Eliot.
“Nessuna rivoluzione potrà accelerare i tempi della germinazione o far fiorire il lillà prima di maggio”: alla fine il giardiniere è un saggio, maturo e paterno scrive Harrison citando Capek, che dà più di quanto prenda (come dovrebbe valere in amicizia, nel matrimonio, nell’educazione), che si sottomette alle leggi della natura, come raccomandavano gli antichi Greci abitanti del Cosmo. Non pecca di hybris, non distrugge il giardino terreno e mortale che abita perché così facendo distruggerebbe anche se stesso. E il cielo e la salvezza sarebbero vani.
Robert Pogue Harrison
Giardini. Riflessioni sulla condizione umana
Fazi Editore
Pagg. 240
Euro 19,50